Negli scorsi giorni il presidente del Turkmenistan Berdymukhamedov ha intimato al governo del paese di trovare un modo per spegnere il rogo che arde nel cratere da oltre 50 anni, per mitigare i suoi effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli abitanti dell’area
La sua nascita è avvolta nel mistero, sepolta nei dossier secretati risalenti alla dominazione sovietica del Turkmenistan. Quel che è certo è che il cratere di Darvaza, anche detto “Porta dell’inferno”, è uno spettacolo difficile da dimenticare: un cratere di 70 metri di diametro e 30 di profondità perso nel deserto del Karakum, e costantemente avvolto dalle fiamme da oltre 50 anni. Non a caso, è la principale meta turistica della nazione: oltre 50mila stranieri hanno visitato il sito a partire dal 2009, in un paese che accoglie appena qualche migliaio di visitatori ogni anno. Presto però le cose potrebbero cambiare. Il presidente Gurbanguly Berdymukhamedov negli scorsi giorni ha infatti annunciato la decisione di spegnere le fiamme della Porta dell’inferno, ordinando al governo di trovare una soluzione in tempi rapidi, per mitigare gli effetti negativi del rogo sull’ambiente e sulla salute della popolazione che abita nell’area.
A dirla tutta, il reale interesse del presidente turkmeno (un leader autoritario, in carica dal 2006) è rivolto probabilmente alle opportunità economiche che offre lo sfruttamento dell’immenso giacimento di gas naturali che alimenta il rogo nel cratere di Darvaza. Giusto a dicembre, d’altronde, la Russia ha annunciato di aver raddoppiato le importazioni di gas dal Turkmenista, raggiungendo nel 2021 i 10 miliardi di metri cubi. E in un paese che si posiziona al quarto posto al mondo per giacimenti di gas naturali, e che fa della loro esportazione la principale risorsa della propria traballante economia, i guadagni che renderebbe possibile lo sfruttamento della Porta dell’inferno superano probabilmente di molto i possibili introiti del comparto turistico.
Sulle origini del cratere e del suo rogo perenne non esistono ad oggi certezze. Una delle versioni più accreditate è che si sia formato nel 1971 durante un’operazione di perforazione sovietica, volta alla ricerca di giacimenti petroliferi nel deserto del Karakum. Il peso della piattaforma di una perforazione posta per caso proprio al di sopra di un grande giacimento di gas naturale avrebbe provocato il crollo del terreno, e l’apertura di un immenso cratere. Per evitare la dispersione del gas nell’ambiente, e i suoi effetti nocivi, i geologi sovietici avrebbero quindi deciso di dargli fuoco, aspettandosi che le fiamme si sarebbero spente nel giro di qualche giorno, inconsapevoli che avrebbero invece continuato a bruciare per oltre 50 anni.
Nel 2013, durante il primo tentativo di esplorazione del cratere mai tentato, l’avventuriero canadese George Kourounis si è imbattuto però in una verità differente: a detta dei geologi locali il crollo che ha creato la Porta dell’inferno risalirebbe infatti agli anni ’60, ma le fiamme sarebbero comparse solamente nel corso degli anni ’80. Trattandosi di un periodo in cui la nazione era ancora parte dell’Urss, e che tutti i documenti sull’argomento sono ancora classificati come top secret, la verità sulla nascita del cratere, per ora, è destinata a rimanere avvolta dal mistero. Anche sul suo destino è presto per avere certezze: non è la prima volta infatti che il governo del Turkmenistan decide di tentare di spegnere le fiamme. E fino ad oggi, nessun tentativo è ancora andato a buon fine.
Fonte: Today.it
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